(L.VON TRIER)
Il mio rapporto con Lars è controverso: è uno dei quattro registi con cui riesco ad empatizzare maggiormente ma il nostro profondo amore si è interrotto bruscamente nel 2011 alla prima di Melancholia, a mio personalissimo parere, il suo film meno riuscito. Con Nymphomaniac siamo migliorati ma il mio animo, ostile alla banalità e alla ciclicità dell’Arte, si è accesso solamente nella parte 1 e raramente nella parte 2. In entrambi i film non sentivo più “l’immotivata angoscia esistenziale” con cui Lars sapeva sfamarmi.
Sinteticamente: “The house that Jack Built“(La casa di Jack) è un ritorno alle origini, sia nei temi che nella messa in scena, contaminato però dai film immediatamente precedenti. E’ un opera dalle tematiche profondissime che nella mia scala di valori è il migliore degli ultimi otto anni ma inferiore a qualunque film precedente al 2011. Sembra aver perso quel mordente…perché?
Proviamo a rifletterci sopra.
La storia parla del percorso mentale della follia di un serial killer, Jack. Il racconto si dipana seguendo la struttura di Nynphomaniac, episodi/flashback. Vi dolgo informarvi che ho capito immediatamente come la voce dell’uomo con cui Jack stava parlando fosse una sua proiezione mentale…conoscono bene quel “brav’uomo” di Lars.
E’ troppo banale spiegare cosa faccia un serial killer nel tempo libero e come finisca la sua storia (oppss spoiler!!!). Quello che conta è nel mezzo, i sentimenti che ha fabbricato nel percorso, o da cui è stato posseduto. Matt Dillon è bravissimo e riesce a rendere tutti i passaggi psicologici in maniera impeccabile, mostrandoci con chiarezza l’emotività di Jack.
Il filo di Arianna di questa labilissima storia viene esplicitato nella prima parte. Dopo il secondo incidente, Jack trascina con l’auto il cadavere della sua vittima ma per la forza di accelerazione il sangue riesce ad uscire dal celophane in cui è avvolto, lasciando una traccia di sangue lunga chilometri, che porterebbe al nascondiglio di Jack.
Però in quel momento piove a dirotto, cancellando così le tracce. Lars vuole evidentemente dirci come per lui, e io concordo, la Vita si prenda beffa di tutti noi salvando i distruttori e accanendosi contro i pavidi.
Ma il punto è un altro: la scia di sangue non è stata una disattenzione, ed esattamente come l’attacco ossessivo compulsivo che colpisce Jack quando è sul punto di abbandonare la scena del delitto, è stata lasciata intenzionalmente dal subconscio del protagonista.
Virgilio, l’interlocutore dei flashfoward, glielo e ce lo spiega. Come da bambino Jack fuggiva dagli altri nascondendosi fra i campi di spighe lasciando intenzionalmente tracce del suo percorso per via delle canne spezzate, allo stesso modo lo fa da serial killer. Non è un una tantum, lo fa per tutto il film. Lo dice Jack stesso:<<Quando il mio disturbo ossessivo compulsivo si abbassa, allora alzo il livello di rischio>>.
Pensiamo al finale: la polizia scopre il suo nascondiglio solo perché lui ci ritorna con l’auto della polizia con la sirena in funzione. Evidentemente Jack sta cercando qualcosa, per questo fa quello che deve. Nella morte vuole afferrare la Vita e in questo sviluppo segue la metafora dell’uomo che cammina sotto i lampioni.
Il primo tempo stenta a decollare, i primi due episodi sembrano poco vividi ma fanno parte di un piano a lungo termine. Più il rischio sale più Jack si accende, e con lui la messa in scena. Ma il crescendo è nella struttura cinematografica e non nella consequenzialità narrativa, perché si suppone che gli episodi non siano consecutivi.
Pensiamoci un attimo: nel primo episodio c’è la noia e il distacco, e l’omicidio viene scatenato dalla disturbante violenza verbale di un bravissima, e ancora gnocchissima, Uma Turman. Nel secondo episodio Jack mostra sii intraprendenza ma sembra quasi un novellino. Improvvisa un monologo ridicolo per convincere la sua vittima ad aprirgli ma non ci crede nemmeno lui. Successivamente viene preso dal disturbo ossessivo compulsivo e per quattro volte non lascia la scena del delitto.
Nel terzo episodio, quello di Simple, la storia si accende definitivamente. La violenza non sta nei gesti, anche perché la rimozione delle mammelle non viene mostrata, ma nei simboli proposti. Jack rappresenta la crudele hybris, l’anarchia, mentre Simple, di certo nome casuale, rappresenta il mondo stantio che si masturba sulla propria immagine.
Entrambi i simboli sono legati l’un l’altro come una calamita, ma alla base c’è il disprezzo. Simple scappa da lui e cerca aiuto in poliziotto che quando sente la verità, su come Jack sia un assassino con 60 omicidi a carico, lo crede ubriaco e se ne va.
Questo è ciò che sei, Lars. Questo amo di te.
La scrittura ribadisce immediatamente il punto quando Jack permette a Simple di urlare per chiedere aiuto, dimostrandole come nessuno la verrà a salvare, perché il mondo egoista riflette sempre le sue sembianze mostruose. Ad aumentare gradualmente il carico ci pensa il quarto episodio, quello della gita familiare. A mio parere il più violento a livello ideologico.
Qui la contrapposizione è più complessa rispetto all’episodio precedente. Jack si prende l’onere di difendere il ciclo naturale. Infatti racconta come nelle specie animali il primo a camminare sia sempre il capo branco, seguito poi dagli altri membri in ordine di importanza. Per queste ragioni il cacciatore deve sparare prima al capo così da lasciare gli ultimi indifesi e senza guida.
Jack però si arrabbia quando scopre che nella civiltà il rapporto è rovesciato: il capo branco manda pavidamente avanti le persone di cui si dovrebbe occupare, per questo Jack li uccide nell’ordine con cui la donna e i due bambini hanno disobbedito al ciclo naturale. A corollario, Jack esce dalla storia e con il montaggio di immagini di repertorio e accusa l’umanità della propria mediocrità, un’umanità che vive della “stravagante arte delle icone”…
A questo punto mi sono guardato intorno, tre persone hanno lasciato la sala ma gli altri non hanno fischiato. Mi sono molto sorpreso.
Nell’episodio conclusivo il livello di rischio è ormai alle stelle e la critica alla società diventa definitiva. Il suo esperimento, sparare un solo proiettile per conficcarlo simultaneamente in più persone, è una chiara metafora del genocidio che però non riesce a portare a termine. Nulla di nuovo, perché il fallimento è un tema ricorrente nelle grandi opere dell’umanità.
Quello che mi interessa sottolineare è l’uso del montaggio delle attrazioni: nel finale del quarto episodio si parlava di” icone” e casualmente la prima inquadratura dell’episodio successivo è un ragazzo di pelle nera che viene preso per essere ucciso. Ma non solo, nel metaforico genocidio le persone inquadrate nitidamente sono sempre e solo due: un asiatico ed un nero.
Coincidenze, io non credo…
Inoltre le vittime precedenti erano tutte donne e quando Virgilio glielo fa notare, la scrittura sceglie sii un uomo ma come detto di pelle nera.
Oltre al Lubitsch’s touch c’è anche il Lars’s touch, bastardo fino al midollo…
Jack precipita nella botola della follia e cade nel “sesto episodio”, il finale vero e proprio, l’inferno dantesco. Se l’intenzione teorica può essere seducente, visivamente la resa in CGI non brilla, soprattutto se abbinata con i rallenty, e stona leggermente con tutto quello visto e raccontato precedentemente.
E’ chiaramente una parte accessoria che Lars deve aver attaccato in una seconda fase. Non è pessima non ma aggiunge nulla all’opera.
Concludiamo sul significato del titolo: tradotto significa “la casa che Jack ha costruito”. Per tutto il film si fa riferimento al fatto che lui sia un geometra con ambizioni da architetto e che voglia costruire la propria casa. La tira su un paio di volte per poi farla demolire, la ritiene troppo comune o sofisticata.
Ma infine trova quella giusta e fa capire allo spettatore come il problema fosse sempre stato il “materiale”. La sua casa, che simbolicamente lo protegge dalla polizia, è fatta dai cadaveri dei suoi omicidi, cadaveri di cui chiunque altro si sarebbe sbarazzato.
Due righe sul grande difetto che ho riscontrato: seguendo questa struttura a blocchi con andamento crescente, ogni episodio acquista un valore fondamentale.
In questo senso il primo episodio è troppo fiacco e nonostante comprenda le intenzioni di scrittura, quello che rimane in mente è solo Uma Turman e il suo primo piano splatter. Inoltre connettere gli episodi con Jack che mostra i cartelli è visivamente interessante senza essere però un reale elemento meta narrativo.
Cosa dire ancora? Potrei continuare per altre trenta pagine sull’argomento ma la forza di Lars Von Trier sta nella soggettività e nella prepotenza dell’implicito. Quindi andatelo a guardare e non fatte i pusillanimi!
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