(F.DARABONT)
<<…a volte ero un po’ triste che se ne fosse andato. Devo ricordare a me stesso che alcuni uccelli non sono fatti per stare in gabbia. Le loro piume quando volano via la parte di te che sa che era un peccato vederli in gabbia è felice. Ma poi il posto in cui vivi diventa grigio e vuoto senza di loro >>
“Le ali della libertà“, titolo originale “Shawshank redemption”.
Ho consumato la VHS di questo film e considero questo capolavoro uno dei film che emotivamente mi coinvolgono di più nella storia del Cinema. Ho approfittato di Netflix per rivederlo 10 anni dopo, in una decade dove ho studiato il Cinematografico comprendendo perché sia considerato da diverse riviste storiche di settore uno dei migliori film mai fatti.
Prima di sbrodolare sulla Qualità tecnica dell’opera, devo riconoscere che la scrittura di Darabont sia una delle sceneggiature migliori che abbia mai avuto l’onore di vedere su schermo. Questo mi permette di chiarire un punto UNA VOLTA PER TUTTE: la scrittura trascina il resto del film e non il contrario.
Una sceneggiatura quadrata permette alla recitazione di sbocciare in dialoghi e indicazioni di scrittura, la regia e la fotografia si esaltano nel filmare scene pregnanti, gli ambienti e le colonne sonore si illuminano nel ritrarre il turbinio di emozioni. Talvolta la regia salva la baracca ma esclusivamente in mano a dei “veri” visionari. Prendete nota Peele e Sorrentino! ☹
Il soggetto è di per se lineare: un uomo viene accusato e condannato per un duplice omicidio nella prigione di Shawshank, mura in cui redimerà la sua vita completando il proprio percorso interiore. Se il soggetto fila liscio, il trattamento della sceneggiatura è tutt’altra questione. In qualunque altro film lo sviluppo sarebbe stato banalizzato, invece Darabont srotola le dinamiche psicologiche di tutti i personaggi con una maestria unica.
Sviluppo che esalta e giustifica completamente i 142 minuti totali della durata. Se lo avesse girato Sorrentino sarebbe durato 470, come minimo. La forza sta nel rendere centrale le vicende del protagonista Andy Dufresne, supportato introspettivamente da tutti gli altri personaggi (da Heywood al ben più importante Red). In questo modo il contesto intero VIVE e comunica con lo spettatore. La prigione di Shawshank diventa un personaggio in evoluzione.
Il film inizia in medias res: durante il processo l’avvocato dell’accusa sta ricostruendo la “colpevolezza” di Andy Dufresne, partendo da fatti e non da supposizioni. Andy è ubriaco nella sua auto di fronte alla casa delle due vittime. Maneggia una pistola su cui lascia le impronte, per poi uscire dall’auto, calpestando il fango.
L’avvocato dell’accusa, a differenza delle parole dell’imputato che sostiene di aver lanciato la pistola nel fiume senza averla usata, lo accusa apertamente di aver raggiunto la casa dell’amante di sua moglie e di averli uccisi con premeditazione. Anche il giudice se ne convince e condanna Dufresne a due ergastoli.
Fin dalla prime scene Darabont inganna lo spettatore, in chiaro stile “The prestige”. Noi ci convinciamo della colpevolezza di Andy perché il giudice lo condanna e soprattutto perché Andy appare emotivamente distaccato, come spesso lo sono i colpevoli. Eppure a ¾ film scopriamo come sia innocente, collegandosi al famigerato dialogo:<<Perché sei dentro?>>.<<Qui dentro siamo tutti innocenti, mi ha fottuto l’avvocato>>.
Quindi il protagonista è il mistero principe dell’intera storia, e senza forzature. Ce lo dice Red al loro primo incontro:<<Era un tipo taciturno e camminava e parlava in un modo che qui era considerato strano. Passeggiava con aria spensierata come se stesse al parco. Come se fosse protetto da una corazza invisibile. Posso dire con certezza che Andy mi piacque dal primo momento>>.
Quindi un uomo combattuto e orgoglioso che cammina in mezzo agli altri senza entrarne in reale contatto. Non è un caso che Andy Dufresne non parli mai di sé, nemmeno a Red che sarà l’unico amico che inviterà a Zihuatanejo in Messico, luogo simbolo della libertà. Il periodo delle detenzione viene gestito in una inusuale curva di sviluppo, del resto perfettamente realistica. O per meglio dire, è l’allegoria della vita dell’individuo nella società.
Innanzitutto Darabont ci mostra dalla prima notte dietro le sbarre come, nonostante i valori di redenzione che il concetto di prigione dovrebbe suggerire, il sangue e l’omertà siano di casa. Il sadico capo delle guardie, Hadley, spacca la testa ad un novello detenuto solamente per non aver rispettato il silenzio. Andy nei primi anni viene torturato dalle “sorelle”, un trio di detenuti schizzati. Andy si difende e spesso perde.
Nonostante i lividi parlino chiaro, le guardie non intervengono mai e la questione si risolve esclusivamente quando Hadley pesta a sangue il capo delle ”sorelle”. Se andiamo ad indagare su questa dinamica, si possono già trarre interessanti risvolti. Hadley non lo ha salvato per il buon cuore che non ha, ma perché Andy è sotto la sua ala di protezione. Infatti Andy, per via del suo passato da vice direttore di banca, gli si è proposto come aiuto per aggirare la legge e non fargli perdere denaro con la dichiarazione dei redditi.
Il carattere di Andy ci appare mansueto e questo gesto appare come “in buona fede”. Eppure dopo un paio di visioni si nota come il mansueto Andy stia facendo “carriera” nell’unico mondo che gli è rimasto. Si sta intenzionalmente “istituzionalizzando” e questo si riflette sul fatto che corrompere le guardie sia il modo migliore per assaggiare una briciola di potere.
La fase dell’innocenza: l’individuo nella società viene immediatamente bullizzato e se portasse dalla sua parte, umiliandosi, coloro che sono più potenti nella scala sociale, sopravvivrebbe.
Da lì il passaggio è repentino: nel giro di pochi anni l’aria mansueta viene rimpiazzata dal ghigno da uomo di potere, di colui che è consapevole di valere qualcosa. E’ ammanicato con il direttore della prigione, l’ancora più crudele e subdolo Samuel Norton, e con tutti i suoi sottoposti. <<La cosa strana che fuori ero una persona onesta, è in prigione che sono diventato un criminale>> questo confida Andy a Red.
E’ una risorsa talmente utile ed intraprendente che riesce anche a trovare i fondi statali per ampliare la biblioteca e dare un istruzione a molti giovani. Ormai Andy è “un pezzo grosso”. Il suo volto è stretto in una smorfia criminale, dove non c’è più spazio per “Rosebud”.
La fase del cavillo: l’individuo ha imparato a barcamenarsi e non si sente più umiliato. E’ fiero di quello che fa, ovvero di vincere con sotterfugi. La morale non esiste, vige esclusivamente il volere.
Il terzo step giunge all’arrivo di un novellino di nome Tommy. Un pezzo di pane condannato per due anni per furto. E’ una ventata di aria fresca, giovane e spigliato Tommy rappresenta tutto quello che Andy NON è.
arla a sproposito, non si fa troppe domande e non ha affinità con la tagliente retorica. Tommy, venuto a sapere del motivo della condanna di Andy, racconta una strana storia: in una delle tante prigioni in cui era stato, il suo compagno di cella si vantò di aver ucciso un uomo e una donna e che ad essere arrestato fu il marito della donna, un pezzo grosso di banca. Uno come Andy Dufresne.
Andy va dal direttore e gli spiega la situazione. Norton liquida la questione perché non ha nemmeno intenzione nemmeno di verificare l’evenienza, perché Andy gli fa guadagnare milioni sotto banco. Norton manda Andy in isolamento e manda a chiamare Tommy nel cuore della notte, fuori dalle mura. Gli chiede se giurerebbe sulla bibbia, davanti alla Corte, prima di dichiarare il vero sugli avvenimenti raccontati. Tommy lo conferma con il viso da bravo ragazzo, Norton gli fa fumare l’ultima sigaretta e Hadley lo condanna a morte con un proiettile alla schiena.
La fase del mantenimento dell’ordine: qualora l’individuo si dimostri capace e corruttibile, la società lo farà diventare elemento essenziale della catena di montaggio. Eppure se un qualche elemento o legame rischi di farlo regredire ad una “purezza umana”, l’ostacolo deve essere eliminato. Insabbiato.
Andy vuole uscirne da tutto, dagli imbrogli, dalla vita. Norton lo minaccia, non solamente di farlo ritornare alla prima fase, quella delle “sorelle”, gli illustra anche il modo in cui brucerà la sua biblioteca, obbiettivo conquistato da Andy in più di dieci anni di perseveranza. Da quel momento Andy perde qualsivoglia velleità di fierezza e si aggira con le braccia lunghe sui fianchi, al pari di uno schiavo.
Non comunica più con Red e i compagni di mensa, e quando lo fa si pente di errori che non ha commesso direttamente. Non sorride più nel meraviglioso modo della scena del tetto del primo tempo. Sembra la fine, un percorso senza uscita, dove al massimo si ci può illudere. Andy blatera di andare in Messico, fuori da quelle mura e Red, istituzionalizzato nel profondo, ribadisce che “la speranza è peggiore della paura”.
La fase della rabbia: l’individuo non accetta più che cosa sia diventato e vuole scappare ma dall’alto della sua esperienza. Aggirando quella stessa legge che lo ha spinto nella “merda”, finge di essere un uomo che non è. Ancora per poco tempo.
Il giorno successivo Andy chiede in prestito una corda, (come Brooks di cui tratterò successivamente). Si teme il suicidio, Red non riesce a dormire nella sua fredda cella. Eppure la mattina dopo di Andy non c’è più traccia. E’ volato via, la sua cella è vuota tranne le sue rocce levigate e il poster dell’attrice svestita di turno. Norton è furioso e lancia le rocce di Andy addosso a tutti, a Red che interroga per carpirne indizi, alle guardie e a “Tette d’oro”, il poster della star che in effetti ha la risposta. Un enorme buco nel muro da cui è evaso.
<<Pensavo che per scavare un buco con quel martelletto da roccia ci volessero 600 anni, Andy ce ne mise meno di 20>>.
Andy, grazie all’identità fiscale fittizia che ha creato per gli imbrogli del direttore, preleva l’intero denaro sporco di Norton e infine invia per posta un dettagliatissimo resoconto dei brogli di tutti gli uomini della prigione di Shawshank.
La fase del contrappasso: l’individuo scompare dalla società e palesa gli orrori della coercizione fisica, morale e psicologica subita. Con la stessa sensibilità dei suoi carnefici.
Infine la redenzione, presente nel titolo originale “Shawshank redemption”. Andy su una spiaggia di Zihuatanejo lucida la barca con un sorriso da uomo libero senza più nessuna oppressione. Si è redento.
Ma “Shawshank redemption” è molto più di questo (che è già abbastanza per la produzione media). La sottotrama principale è quello dell’essere “istituzionalizzato”, ovvero “prima da queste mura vorresti fuggire, poi ci rimani così tanto da non volerle lasciare”.
Questo morbo mortale viene esplorato dalla sceneggiatura da tutti i punti di vista: il vecchio Brooks è costretto ad uscire di prigione per aver scontato la pena ma non riesce ad adattarsi ad una società che non conosce. Inizialmente pensa di uccidere nuovamente per ritornare indietro ,invece infine si suicida. Poi c’è Red che dopo la sua pena scontata, tentato di imitare Brooks, deve mantenere però la promessa fatta al suo Amico Andy. Raggiungerlo da uomo libero in Messico.
Chiudiamo sugli altri aspetti. La regia di Darabont è decisamente incostante: nei primi e ultimi 30 minuti di gran livello, nella parte centrale cala in tagli di inquadrature, mostrando quasi svogliatezza.
La ragione forse potrebbe trovarsi nell’intenzione di far coincidere lo stato d’animo di Andy con la macchina da presa. Una parte centrale dove Andy è cupo nell’animo, stretto fra l’ebbrezza del potere e il senso di colpa per lo smarrimento di “Rosebud”. Eppure oso criticare la sua scelta, forse il buon Darabont avrebbe potuto virare il registro sul noir più classico…
Riguardo la recitazione si può solamente lodare gli attori, e il regista per averli diretti tirando fuori le migliori interpretazioni delle loro carriere. Voglio aprire una piccola polemica: è osceno che agli Oscar dell’1995, innazitutto il film non abbia vinto nulla, ma soprattutto perché Morgan Freeman sia stato nominato come miglior attore protagonista, escludendo Tim Robbins?
Intendiamoci, Morgan Freeman meritava la nomination ma come attore non protagonista, così come Tim Robbins meritasse quella per attore protagonista, e forse anche l’Oscar. In questo film Tim è stratosferico: il suo volto è talmente espressivo da mostrarci almeno cinque cambi di stati d’animo, non facendoci pesare i lunghi silenzi. Anzi, quelle mancate parole rafforzano la sua espressività.
Cos’altro dire? Fotografia perfettamente abbinata alla trama e alla regia, location evocative con questa interni della prigione in pietra, allegoria del sistema vecchio e marcio, citazioni cinematografiche e grandi interpretazioni. Le parole non bastano, le immagini del film colmeranno queste mancanze.
Questo è il Cinema, signori!
Lascia un commento