(J.BERLINGER)
Il film con protagonista Zac Efron è uno dei migliori film che ho visto nel 2019, ma dopo lo studio del documentario “Conversazioni con un killer-il caso Ted Bundy” ho dovuto criticare l’opera con più severità.
Il valore complessivo non ne viene sminuito, solo in minima parte, e ci da indicazioni su quali siano state le intenzioni narrative del regista Joe Berlinger e della produzione. Scelte perseguite coerentemente, senza alcun dubbio, ma che non condivido del tutto.
Prima di tutto la storia. E’ quella lì, inutile aggiungere altro: gli avvenimenti sono fedeli, fra il 1974 e il 1980 Ted Bundy passa delle prigioni d’America e viene giudicato colpevole e condannato alla sedia elettrica diventando il simbolo del Male made in Usa.
Il regista aveva fra le mani una “bella gatta da pelare” perché esplorare il tema senza cautela sarebbe stata la loro fine. Il taglio è intimista ma non accentrano tutto sul famigerato serial killer ma su Liz Kendall, la fidanzata di Ted.
Questa scelta, non solo permette di non banalizzare sulla violenza indicibile ma ci fa empatizzare con il suo personaggio. Gli occhi di Liz sono quelli degli spettatori, affascinati e ingenui, pronti a credere alla sua innocenza. Perché il film spinge in questa direzione: nei vari processi giudiziari non si hanno mai prove schiaccianti della colpevolezza (a parte il morso sulle natiche di una vittima).
Difatti quando Ted viene arrestato per la prima volta io mi sono sorpreso, chiedendomi se in America fosse la prassi per un mancato stop. In realtà le autorità lo stavano cercando da mesi.
Il documentario fa luce su questa omissione intenzionale della narrazione cinematografica: nei primi identikit i primi testimoni lo avevano visto in volto, sapevano la marca della sua automobile e l’avevano sentito presentarsi come Ted alle prime due ragazze scomparse!
Sotto questa luce ha più senso la denuncia della fidanzata Liz (in entrambe le versioni). Il film ha omesso questo dettaglio per tenerci sul filo del dubbio, perché, come detto, non esiste una scena in cui vediamo Ted commettere questi delitti atroci.
La storia si dipana su questo contrasto, fra quello che vede Liz e dall’altro gli avvocati che dipingono Ted come un mostro. Viviamo il dolore di questa donna che nel finale si rende conto che lui è colpevole grazie a dei flashback in cui intravede, dietro ad alcuni momenti all’apparenza passionali, l’oscurità della persona che ama. E se questa lettura di trama, fulcro di tutto film, mi ha fatto davvero emozionare come fruitore, allo stesso tempo ne rimango perplesso come sceneggiatore.
Perché dare all’opera un taglio documentaristico, con un montaggio serrato ed ellissi temporali? Non sarebbe stato meglio raccontare la storia dal 1974 al 1980 con un crescendo drammatico e psicologico? Nel documentario si hanno molti più dettagli sulla figura di Ted Bundy e spicca il periodo del noto processo, il primo che il governo americano permise di filmare in aula.
Io avrei approfondito il tema rendendolo l’unico sviluppo narrativo del secondo tempo, invece nel film il montaggio scivola via. Certo, sarebbe stato più difficile ma dannatamente più interessante, con quel “qualcosa in più”.
Il documentario netflix ci racconta anche un’altra cosa: il ruolo di Liz non fu così centrale come mostrato nel film. Si limitò il rapporto fino al primo arresto di Ted e non ci fu tutto quel finalone di lei dieci anni dopo. E’ una scelta che però comprendo, perché era necessaria. Se alla base dell’opera c’è il rapporto d’amore (il modo per eccellenza per attirare il largo pubblico) allora devi andare fino in fondo.
Continuiamo a parlare del film, specificatamente sul lato tecnico. Ho davvero apprezzato la regia. E’ stata intensa e intimista, concentrata sui personaggi piucché sulle vicende. Su tutte le ultime parole di di Bundy dopo essere stato condannato alla sedia elettrica: l’inquadratura si stringe sul suo primo piano fino agli occhi. La fotografia è ottima e riflette lo stato d’animo dei personaggi, una cupezza che si estende a macchia d’olio. Il livello recitativo è alto, sorprendentemente profondo.
Zac Efron mi ha davvero stupito in un ruolo che gli sembra cucito addosso. Certo, forse è troppo di bell’aspetto rispetto al Bundy esistito ma i modi, la voce e la personalità sono impeccabili. Efron deve gestire due personalità, ed è bravissimo nel tenere sotto traccia la ferocia (con movimenti minimali del viso), celandola dietro a larghi sorrisi rassicuranti. Se lo nominassero all’oscar 2020 non mi sorprenderei.
Anche i personaggi secondari sono intensi: da Lily Collins (Liz Kendall), Kaya Scodellario (Carole Ann Bonn), John Malkovic (il giudice) e Haley Joel Osment (Jerry Thompson). L’unico che non c’entra un cazzo è Jim Parson, stona come Allegri in una partita di bel calcio, ma per nostra fortuna ha poche scene all’attivo. Comprendo che inserire un nome di richiamo come “Sheldon” sia una mossa vincente, ma prima controllate che sappia recitare.
Chiudiamo sul montaggio: è la forza trainante del film. In alcuni punti diventa montaggio delle attrazioni, come nella parte iniziale, dove sotto le immagini di Ted che ama Liz e la figlia di lei, c’è il voice over dei giornalisti che parlano delle mattanze. Nella parte centrale si perde, non concentrandosi troppo sul processo, ma l’errore maggiore lo fa sul finale.
Siccome questo film è per il grande pubblico hanno dovuto inserire delle scene a mo’ di spiegone. Il finale dove Liz corre via per il corridoio e ricorda il passato (mostrandoci per la terza volta gli stessi flashback), è eccessivo e affossa una durata che non avrebbe dovuto sforare nemmeno le due ore.
Voglio dedicare due righe su Ted Bundy, quello realmente esistito, così da dare qualche giudizio sul documentario Netflix. L’ho trovato interessante, molto ben realizzato con notevoli intenti di scrittura e buoni risultati. Se volete approfondire è consigliatissimo.
L’uomo Ted Bunty viene fuori prepotentemente e mi ha fatto capire meglio i paradossi del personaggio interpretato meravigliosamente da Zac Efron. Per tutto il film mi sono chiesto se Ted Bundy ci è o ci fa. Un momento prima si difende con le unghie e con i denti fra emendamenti e cavilli e poi uccide delle donne e lascia indizi e testimoni?
Com’è possibile? Il documentario mi ha confermato la veridicità di questi atteggiamenti, il fatto che avesse una doppia personalità, da un lato l’uomo sociale dalle buone maniere e dall’altro la bestia.
Le personalità non si affiancano ma si sovrappongono, quando c’è una non c’è l’altra. Un essere umano capace di diventare una bestia, o capace di trattenere malamente la sua ferocia. Quale straziante dolore ha albergato in lui, prima di riversarlo sulle sue vittime…questo mi ha ricordato in parte il protagonista della “Casa di Jack” e questo non può che farmi piacere.
PS: I voti si riferiscono al film!
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