(P.LAUGIER)
L’arte può essere giudicata da parametri oggettivi: la lunghezza, la vivacità dei colori, gli incassi, la contestualizzazione sociologica, e altri parametri con cui si può imprigionarla con schemi sempre più precisi, che la strozzano e infine la decapitano.
Ma l’Arte deve essere prima di tutto l’emozione che ti lascia, in questo senso “Ghostland” è un’opera perfettamente riuscita. Non è perfetta, del resto non lo è neanche “Godfather, part II”.
Il grande punto di forza della pellicola di Pascal Laugier, non a caso soggettista, sceneggiatore e regista di questo film!, è la coerenza interna di una storia che corre dal punto A a quello B senza fermate inutili, filler e jump scare da quattro soldi(o quasi). Per un’opera di genere non è poco, soprattutto considerato la produzione horror degli ultimi anni, dove non si vuole più angosciare la mente ma solo costringere il corpo a reagire a determinati stimoli fisici.
Ci trattano come se fossimo dei topi da laboratorio, giocando con la nostra dignità di spettatori.
“Ghostland” è un thriller horror con evidenti contaminazioni psicologiche. E ce lo dimostra “la casa”, location in cui vengono girate il 90% delle scene. Un luogo accattivante e angosciante, con queste bambole che sembrano le padrone del luogo, come i gufi di “Twin Peaks”, solo la prima serie! La bambola diventa simbolo della paralisi davanti al dolore e della non accettazione della realtà e acquista un significato morale, quasi divinatorio.
Il titolo italiano rende perfettamente la centralità del tema, ma lo sappiamo bene come, al pari dei democristiani bigotti, i titolisti italiani cinematografici colgano sempre e solo l’ovvio! Perché la bambola è il simbolo della realtà alternativa, “ghostland” nell’originale, che la giovane Beth si è creata per superare il dolore dell’omicidio della madre a cui ha assistito con i suoi occhi. E’ da qui che inizia l’inganno allo spettatore, lo stesso inganno in cui si ostina a vivere la protagonista, come reazione post traumatica.
Per i primi quindici minuti, dove si mostra l’irruzione in casa dei due criminali, l’unica persona che non aveva mai opposto una degna resistenza era stata proprio la protagonista. E in sala io stavo già borbottando maledendo i chliché del genere. Ma il regista ha giocato con questi stereotipi rivestendogli di dignità, dando, per una volta, delle giustificazioni a delle reazioni umanamente inaccettabili. E per trequarti della pellicola Pascal Lauigier si prede gioco di noi nell’accezione positiva!
Ci mostra i desideri di Beth, nella realtà ancora schiava dei soprusi psicologici(e forse fisici?) dei due criminali: è diventata una scrittrice affermata, innamorata e madre di due bambini. L’attrice Crystal Reed, “villain” della quarta serie di Gotham, interpreta benissimo questa magnifica donna che si è rialzata da quel trauma, che ha tirato per i capelli la Vita e le ha spinto la faccia nel fango. Certo, ha degli incubi e qualche volta non riesce a razionalizzare tutti i patemi dell’animo ma in fondo non ci riesce nessuno, nemmeno uno psichiatra.
Tutto sembra andare per il meglio ma solo per poco. Vera, sua sorella, non si è mai ripresa e vive di allucinazioni. La costringe a ritornare in quella casa e si giunge allo snodo cruciale; Laugier se la gioca benissimo, si fa beffa del pubblico. Questa volta non a livello di sceneggiatura, ma a quello registico. Confonde le carte in tavole, ed ecco cascarci a pioggia tutti gli stilemi alla “the conjuring”, porte chiuse da forze misteriose, scritte sugli specchi, presenze spettrali.
Onestamente mi aspettavo da un momento all’altro un riferimento demoniaco a qualche bambola posseduta, e in effetti il film lo accenna in un dialogo. E invece no: la sceneggiatura ti tira un pugno in faccia, ti fa sentire un idiota per aver creduto che la madre ferita avesse potuto uccidere entrambi i criminali, neanche fosse stata Jason Bourne!!!
Ti vorresti prendere a schiaffi perché tutti quelli che sembravano buchi di sceneggiatura che si palesano come un’adolescente dalla fervidissima immaginazione.
Nulla di tutto quello è mai successo…non è mai cresciuta, non è mai diventata famosa e non vive un grande amore. Non è mai stata felice, ha solo pregato di diventarlo. E capisci come sia irreale che nel 2018 una scrittrice di best sellers usi ancora una macchina da scrivere; è scomoda e non può passare il materiale sul note book.
Risultava incredibile come la madre non avesse mai affidato la sorella Vera ad uno specialista psichiatrico invece di rinchiuderla e farla impazzire con l’autolesionismo. E il film, involontariamente mi aveva suggestionato a credere che la madre fosse stata posseduta dallo spirito demoniaco e che per questo tormentasse le figlie. Era un’idea accattivante, vero?
Riguardo la scenografia, voglio sottolineare il disagio che suscita nella spettatore: si annusa la sporcizia dei liquidi, si versa sangue, gli ambienti sono sporchi così come il lerciume morale dei personaggi, ognuno a suo modo sfuggente e contraddittorio.
Prendiamo la psicologia dei due criminali: viene solo accennata ma si comprendono chiaramente le dinamiche interne fra loro; il travestito rappresenta “la madre”, amorevole e sollecita, che prepara e acconcia le due ragazze, Beth e Vera, come bambole per “suo figlio”, ovvero l’omone che si esprime a monosillabi e che bruciare le dita altrui, così, perché gli piace.
Sono solo ragazzate. E’ solo un po’ vivace, è vero qualche volta squarta gli scoiattoli, i topi e i cani ma sono cose normalissime.
Volevo chiudere sull’unico grande difetto della pellicola; non è una stroncatura ma una critica costruttiva sulle enormi potenzialità di quest’opera. “Ghostland” vuole evidentemente uscire dal genere horror, alterna scelte psicologiche a una regia claustrofobia e drammatica. Il ritmo è serrato e non fa respirare lo spettatore. L’inizio è travolgente come l’atmosfera avvolgente. Eppure ci sono momenti del film in cui si percepisce il target di pubblico a cui è rivolto, la narrazione sottosta a passaggi obbligati del genere e nonostante si reinventi, non brilla mai per davvero. Rimane nel mezzo, nel vorrei ma non posso.
Il finale è emblematico: molto intenso nella messa in scena ma scialbo e prevedibile con il salvataggio delle ragazze da parte delle forze dell’ordine. Che peccato Laugier, avresti dovuto osare ancora di più. Fino in fondo.
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