(Z.HILDTICH)
Stavo deambulando su Netflix scartando “the order”, “umbrella academy”, “Sex education” e compagnia cantante, quando vengo incuriosito dal titolo di questo film, dal trailer e dal fatto che sia tratto da una storia di quel birbantello di Stefanone King. “1922” è un film del 2017 di Zak Hilditch, un regista non molto noto al grande pubblico.
E per quello che ho visto lo è ingiustamente, perché è riuscito ad armonizzare perfettamente regia, sceneggiatura, di cui è fautore, e fotografia. L’opera è solida ed emozionante perché alla base si racconta una storia, il che non è più un ovvietà. Certo, con Stefanone Re come riferimento vinci facile, anche se trasporre dalla carta allo schermo non è semplice come appare.
La trama narra di Wilfred James, un contadino che nel 1922 dopo l’omicidio e l’occultamento del corpo della moglie Arlette viene perseguitato dalla sfortuna e dai sensi di colpa, costringendolo a confessare l’omicidio nel 1930 e morire suicida.
Sceneggiare una storia come questa è come correre su un campo minato, nonostante si citino interi capitoli del romanzo. Ciò che funziona è non drammatizzare moralmente sugli avvenimenti.
Grazie ad un montaggio cinico e sfuggente, la scrittura tratta i terribili avvenimenti che si susseguono senza soffermarsici mai, diluendoli nell’arco degli 8 anni della finzione narrativa. Il montaggio diventa metafora dell’egoismo di Wilfred James che stoicamente reagisce alla dannazione che avvelena la sua esistenza.
Wilferd è l’opposto di re Mida, quello che tocca muore. Senza vergogna nella sua manipolazione, corrompe suo figlio Hank sulla via della violenza e lo fa diventare un bandito, uccidendo indirettamente anche suo nipote in grembo a Shannon.
Ma qual è stato il “premio” che ha spinto quest’uomo a distruggere la sua vita? 180 ettari di campi coltivabili.
Questa evidenza costringe lo spettatore degli anni ‘2000 a riflettere: Wilferd si contrappone alla moglie Arlette, e i due diventano i simboli della natura contro la civiltà. Il punto di Arlette è chiaro: vendere i suoi 80 acri e lasciare il solitario e anacronistico mondo contadino.
Wilfred non può accettarlo perché lui vive della terra e perché “living in the town is for the fools”. La natura, o meglio la naturalità degli istinti, spingono Wilfred all’omicidio anche davanti alla prova che il granturco sta marcendo (simbolo del matrimonio fallimentare del protagonista?).
Wilfred coinvolge e manipola il figlio adolescente con l’esca di Shannon, la ragazza dei vicini di cui si è innamorato. E’ agghiacciante assistere alla naturalezza con cui ne parla al figlio, con cui cerca di convincerlo, come se lo stesso Hank fosse corrotto dai geni del padre. L’intero reparto tecnico non lo sottolinea con arzigogolati movimenti di macchina e ti mostra la follia per quello che è, senza edulcorarla, rendendola viva e per questo spaventosa.
A peggiorare le cose, il delitto non si consuma in modo pulito perché la vittima ubriaca si dimena davanti al figlio, che si sporca di sangue.
Un ragazzo che deve trascinare il cadavere della madre! Se Wilfred avesse fatto tutto da solo, in modo pulito e senza farlo sapere a suo figlio, allora il suo omicidio sarebbe stato degno.
Infine Stefanone Re butta il carico da 90: i topi. Rappresentano la piaga biblica della colpa e allo stesso tempo strizzano pesantemente l’occhio a “cuore rivelatore” di E.A Poe. Più che una citazione, è un’omaggio. In questo senso l’unica differenza sostanziale fra film e romanzo è il finale: nell’opera di Stefanone sono i topi a mangiare Wilfred vivo, ma guarda un po!, nel film di Hilditch si suggerisce l’idea del suicidio come frutto della follia.
La differenza è sostanziale ma posso comprendere perché il regista l’abbia fatto: visivamente è la figura del figlio Hank a instillare il senso di colpa perché noi spettatori, al pari del protagonista, abbiamo assistito alla sua trasformazione; il suo volto cadaverico, storpiato dai proiettili, disgusta e fa male più di un branco di topi, almeno nell’opera audio-visiva. Topi che in entrambe le opere distruggono il “premio” a cui Wilfred aveva tanto agognato.
E più l’uomo cerca di respingerli più ne esce sconfitto.
Per un morso di topo la sua mano si incancrenisce ed è costretta ad amputarla, non potendo più lavorare con la stessa efficienza. Per scacciare via i topi che prendono di mira la sua preziosa casa si indebita con la banca, che poi si prenderà i 180 acri di terreno per cui lui ha ucciso sua moglie e ha fatto ammazzare suo figlio. Nell’ultima scena i topi rompono il muro della stanza in cui sta scrivendo la confessione e lo spingono al suicidio.
“1922” ha poco da spartire con “Delitto e castigo”, Wilfred non sente mai la colpa ma solamente la pena per i suoi crimini. Certo, in balia della follia ammette di aver commesso degli errori, ma non si percepisce una genuina volontà di redenzione.
Passiamo alle annotazioni tecniche: ho adorato la fotografia di questo film, non per la sua eccezionalità ma per la perfetta gamma dei colori, dal blu smorto a un grigio, ad un passo dal bianco e nero. Scelte di fotografia che ci fanno empatizzare con l’anima del protagonista, alla scialbezza con cui vede il mondo. Ho apprezzato le location così rustiche e bucoliche, genuine nella loro semplicità.
Al livello recitativo il livello complessivo è alto; dal Wilfred di Thomas Jane, passando dal sempre solido Neal McDonough per concludere a Molly Parker nel ruolo di Arlette. Ma l’applauso a scena aperta lo faccio al giovane Dylan Schmid, che interpreta Hank, per via della piena e feconda espressività del viso. Bravissimo.
Concludiamo sull’unica pecca: il montaggio, che è impeccabile nella sua funzionalità narrativa in relazione alla regia, fotografia e sceneggiatura, si perde per cinque minuti a tre quarti di film. Si racconta di come il fantasma di Arlette raggiunga Wilfred e che gli sussurri le sue colpe. mostrando in montaggio alternato le sorti di suo figlio e di Shannon.
E’ una citazione dal romanzo, d’accordo, ma questa volta non funziona! E’ troppo veloce e risulta sbrigativa, come un sotterfugio per non impegnarsi a sceneggiare. Avrebbero dovuto gestire meglio le vicende d Hank e Shannon, mostrandocele non come spezzoni di flashback muti ma come scene vere e proprie.
Per il resto lo trovo un gran bel film, solido e professionale. Guardatelo e non fate le merde! 🙁
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